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Razza Italiana 1938, in scena per la Memoria

In Via Giulia sul palco dell’OFF/OFF Theatre va in scena “Razza Italiana 1938Le giornate della memoria”, scritto, diretto e interpretato da Giuseppe Argirò, che salirà onstage per l’appuntamento unico del 31 gennaio 2022.

A molti individui o popoli può accadere di ritenere che ogni straniero è nemico, quando questo avviene al termine della catena sta il lager”: da questa convinzione di Primo Levi parte lo spettacolo, che attraversa il dolore umano, raccontando la discriminazione, l’orrore delle leggi razziali e la deportazione nei campi di sterminio. La tessitura drammaturgica scandaglia l’irragionevolezza di ogni dittatura, nata dall’acquiescenza delle masse, evidente durante il regime. Gli stessi protagonisti, colpiti da norme inique, saranno coloro che affronteranno un viaggio senza ritorno verso Auschwitz, ricordato dalle testimonianze del processo di Francoforte che si svolse dal 1963 al 1965.

Primo Levi
Primo Levi

Lo spettacolo ripercorre, attraverso la voce e la vita della piccola Sara, un’ebrea come tante, vittima delle persecuzioni, il ventennio e tutti gli eventi che hanno caratterizzato la dittatura di Mussolini fino alla disperazione sociale causata dalle leggi del 1938 e al rastrellamento del ghetto di Roma del 16 ottobre del 1943 che preludeva alla destinazione infernale dei lager. Le diverse voci della Shoà danno vita a una partitura polifonica in cui prevale l’aspetto corale tipico della scrittura tragica senza catarsi.

Giuseppe Argirò protagonista di Razza Italiana 1938
Giuseppe Argirò protagonista di Razza Italiana 1938

Lo sguardo di Sara è attonito e stupefatto, una visione sghemba, a tratti fiabesca, di un mondo a lei incomprensibile, che si risolve drammaturgicamente in continui cambi di registro dall’ ironia al dramma, con una costante poesia che pervade le sue parole, trasformando gli eventi storici in epica familiare. La storia non sembra aver espiato ancora le sue colpe e il teatro appare l’unica possibilità di resistenza alla rimozione perché ancora rituale collettivo. Le vittime e i carnefici condividono in scena le sorti di un’umanità dolente e senza riscatto, a cui solo il palcoscenico può garantire la vita.

Raccontare quanto è accaduto con le leggi razziali e, di conseguenza, ciò che è avvenuto nei campi di sterminio, è un imperativo morale. Dopo la Shoà, infatti, nessuna forma di tragedia è più possibile, poiché la realtà supera ogni forma di rappresentazione. La scientificità della soluzione finale e il genocidio, avvenuto con metodicità e rigore, va al di là di qualsiasi considerazione etica e annulla il concetto stesso di bene e di male.

Il testo narra, con ironia e gusto del paradosso, i rapporti tra il regime fascista e il nazionalsocialismo di Hitler: Ben e Adolf diventano i protagonisti di questo legame complice e inquietante e scrivono la storia, disegnando scenari parossistici. Lo spettacolo, su un’umanità dolente, senza nome e senza identità, afferma la condizione inesorabile del prigioniero e decreta la demolizione dell’uomo. Ognuno è un sopravvissuto che non può avvalersi del diritto di rimozione, ma ha il dovere di ricordare, assecondando il potere salvifico della scena. L’attore, quindi, ha il compito di trovare un nuovo linguaggio, atto a esprimere una memoria che va al di là di ogni possibile parola e arriva all’essenza del dolore.

Giuseppe Argirò

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